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La demenza: un modo di vivere un’altra forma di vita

Tratto dal materiale gentilmente messo a disposizione da Laura Turati, referente della 4° edizione del corso di “Qualificazione alle Attività di compagnia in favore delle persone affette da demenza”

 

“La malattia, qualunque malattia, è una condizione di perdita della libertà personale. Questa dolorosa realtà rende difficile accettare ogni patologia fisica, ma complica ancora di più le cose quando colpisce la sfera cerebrale. Questo perché, salvo casi traumatici, il declino graduale lascia al paziente il tempo di rendersi conto che il decorso della malattia è cronico, allo stato attuale della ricerca, e quindi è ineluttabile.

E il risultato non è la morte, che pure spaventa, ma è la perdita di controllo sulla nostra vita, su noi stessi, su quella persona che abbiamo impiegato una vita intera a costruire nella sua veste pubblica e in quella privata, sia nei rapporti sociali che in quelli personali e familiari. È il momento di non ritorno, dopo il quale altri decideranno per noi ogni cosa: cosa è bene e cosa è male, cosa possiamo o non possiamo fare, cosa dobbiamo mangiare o come possiamo trascorrere il tempo e con chi.

Cosa vogliamo noi non conterà più.

Questa è la condizione in cui vivono i nostri cari quando il manto scuro della demenza, qualunque tipo di demenza, comincia a proiettare la sua ombra sulla loro mente e sulla loro vita.
La negazione è la prima naturale reazione, assieme allo sforzo per controllare i comportamenti in modo da dimostrare la falsità della diagnosi, cioè per dire che loro non sono malati.
Si impegneranno quindi a negare di aver fatto o non fatto qualcosa, di aver dimenticato un accordo preso, un discorso fatto, un complimento ricevuto… infine negheranno anche di aver mangiato.

 

Arroccarsi in questo comportamento difensivo porta loro uno stress che aggrava la malattia, perché anche la mente sana lavora peggio quando è sottoposta a tensione emotiva, figuriamoci una mente che combatte per conservarsi attiva.

Non ho remore a portare l’esempio di mia madre, che avendo un bravo diagnosta in famiglia ha cominciato a essere curata prestissimo, quando ancora nessuno si era accorto che si stavano presentando i primi segnali. Oggi gode ancora una vita partecipe e dignitosa.
Ci sono istituti universitari che stanno facendo ricerca per capire quali sostanze e quali eventi della vita umana concorrano a sviluppare le demenze. Sicuramente, come sempre, l’insorgere della malattia avrà cause materiali e cause immateriali, come lo stile di vita e le emozioni, perché l’uomo non è solo materia, come sta scoprendo la Medicina più avanzata, che ora studia per mettere a punto terapie “personalizzate”.

Fare prevenzione diffusa significa anche sensibilizzare le persone al rischio e attivare quell’attenzione, quell’autoaiuto che rendono l’uomo il miglior medico di se stesso.
Il riconoscimento precoce della malattia è complicato anche dalla condizione di vita in costante urgenza che ci siamo creati. Questa situazione, che definiamo stress, crea un paravento che nasconde e mistifica i primi sintomi, rinviandone dannosamente il riconoscimento.

A questo si aggiunge il senso di colpa, lo stigma che qualunque malattia della mente ancora porta con sé. Ricordate quando si nominava sottovoce la parola “cancro”? Perché implicava una vergogna della malattia. Ora si parla diffusamente e utilmente di tumori, anche quelli di organi più delicati come quelli riproduttivi, e la libertà di discussione del tema ha abbattuto fino al 90% la mortalità, perché si è potuta fare prevenzione.

Bisogna quindi affrontare anche culturalmente il problema, perché solo una parte della malattia si può curare con farmaci: c’è ancora una gran parte che si può curare con un’attenta e consapevole terapia comportamentale.
Sarà dunque fondamentale che colleghi e familiari siano portati a conoscenza consapevole della patologia che ha colpito la persona, non per farne pettegolezzo maligno ma per sapere quali comportamenti sono adatti per “curare” la malattia.
La prima reazione del malato è dunque il rifiuto, come dicevamo, che si trasforma presto in una insofferenza verso tutte le persone che cercano di aiutarlo, perché si trasformano in nemici che ostacolano la sua libertà.
Occorre quindi armarsi di una grandissima pazienza per sopportare le sue reazioni irritate, anche violente, e, d’altra parte, organizzare la vita cadenzandola in modo metodico, ordinato, per evitare al massimo che la persona si trovi a fronteggiare situazioni inattese che la confonderebbero.

Un errore che va invece assolutamente evitato è emarginare il malato dalle attività sia lavorative sia familiari. Finché possono, queste persone vanno stimolate, spingendole a fare tutto quello cui sono abituati, coltivando finché possibile anche tutte le loro passioni.

So bene che è un impegno enorme che non può umanamente ricadere su una sola persona, perché farsi carico di tutto, dall’igiene personale (occorre capire quando la persona perde interesse a tenersi in ordine e si lascia andare, abbandonandosi alla depressione prima ancora che alla demenza) alla vita sociale (farsi accompagnare a teatro, a convegni o a sagre paesane, a seconda degli interessi coltivati dal malato durante la sua vita); tutto questo richiede la collaborazione di più persone che, secondo i propri impegni, si rendono disponibili a condividere con il malato una parte del loro tempo e dei loro impegni.

Così siamo arrivati a riassumere il carico di lavoro che abitualmente ricade su chi avrà il compito di fare compagnia a queste persone.”

 

Di seguito si possono scaricare due preziosi documenti a cui potersi ispirare:

Accorgersi del male, rilevare i sintomi

I medici a cui riferirsi